Conduzione della guerra

Alle dimissioni di Giolitti nel marzo 1914, il più conservatore Antonio Salandra formò un nuovo governo. In giugno, la “settimana rossa”, un periodo di rivolte diffuse in tutta la Romagna e le Marche, venne in risposta all’uccisione di tre dimostranti antimilitaristi ad Ancona. Quando la prima guerra mondiale scoppiò in agosto, il governo Salandra rimase neutrale e iniziò a negoziare con entrambe le parti, una politica che il ministro degli esteri Sidney Sonnino descrisse come “sacro egoismo”. Gli austriaci alla fine accettarono di concedere il Trentino all’Italia in cambio di un’alleanza, ma la Triplice Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia) fece un’offerta più generosa, promettendo all’Italia non solo il Trentino ma anche il Sud Tirolo, Trieste, Gorizia, l’Istria e la Dalmazia settentrionale. Gli italiani accettarono questa offerta nel trattato segreto di Londra (aprile 1915) e si unirono alla guerra contro l’Austria-Ungheria un mese dopo, sperando in importanti guadagni territoriali.

I negoziati, condotti dai ministri degli esteri e dal primo ministro e da una manciata di diplomatici, erano stati tenuti segreti. La maggioranza dei deputati, nel frattempo, era favorevole alla neutralità, così come l’ex primo ministro Giolitti, i maggiori gruppi di opposizione (cattolici e socialisti) e la maggior parte della popolazione. La guerra fu quindi sostenuta solo dai conservatori al governo, dall’Associazione Nazionalista, un gruppo formato nel 1910 da Enrico Corradini e altri per sostenere l’espansionismo italiano, da alcuni liberali che la vedevano come il culmine della lotta risorgimentale per l’unità nazionale, da repubblicani e socialisti riformisti che non sapevano nulla del Trattato di Londra e pensavano di combattere per la liberazione nazionale, e da alcuni sindacalisti e socialisti estremisti – incluso Benito Mussolini, allora direttore del giornale del Partito Socialista – che pensavano che la guerra avrebbe portato al rovesciamento del capitalismo. Mussolini fu presto espulso dal Partito Socialista, ma con l’aiuto della Triplice Intesa riuscì a fondare un suo giornale alternativo e favorevole alla guerra, Il Popolo d’Italia. Futuristi e nazionalisti (tra cui Gabriele D’Annunzio) sollecitarono l’intervento. Nell’aprile-maggio 1915 il governo, aiutato da una serie di rumorose manifestazioni di attivisti pro-guerra (le cosiddette “radiose giornate di maggio”), portò avanti la sua politica di guerra nonostante l’opposizione della maggioranza in parlamento e nel paese. Né Giolitti né nessun altro “neutralista” poteva formare un governo senza rinunciare al Trattato di Londra, tradire i nuovi alleati dell’Italia e compromettere il re. Il governo Salandra dichiarò ufficialmente guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio ed entrò in combattimento il giorno seguente. Nel frattempo, nonostante una serie di defezioni alla causa nazionalista, il Partito Socialista espresse la sua posizione ufficiale nello slogan “Né adesione, né sabotaggio”. A differenza dei suoi partiti fratelli nella Seconda Internazionale (un incontro internazionale di sindacati e partiti socialisti), il PSI non si mise dietro lo sforzo bellico italiano. Il riformista Claudio Treves espresse le opinioni pacifiste del movimento in parlamento nel 1917, quando fece un appello affinché le truppe non passassero un altro inverno in trincea. Altri socialisti assunsero un ruolo più attivo contro la guerra e distribuirono propaganda antibellica o organizzarono diserzioni. Anche molti cattolici non appoggiarono la partecipazione dell’Italia alla guerra, sebbene altri presero parte attiva al conflitto. Nell’agosto 1917 Papa Benedetto XV chiese la fine di quello che definì un “inutile massacro”.

Nel giugno 1916, dopo una serie di fallimenti militari, il governo Salandra si dimise. Il nuovo primo ministro fu Paolo Boselli, che a sua volta si dimise dopo l’epocale disastro militare di Caporetto nell’ottobre 1917, che permise agli austriaci di occupare gran parte del Veneto nel 1917 e 1918. Questa singola battaglia lasciò 11.000 soldati italiani morti, 29.000 feriti e 280.000 prigionieri. Circa 350.000 soldati italiani disertarono o andarono dispersi, e 400.000 persone divennero rifugiati. Solo una forte azione di retroguardia in novembre e dicembre impedì ulteriori avanzate austriache.

Caporetto significò la fine della guerra per molti italiani e racchiuse la disastrosa leadership del generale Luigi Cadorna, così come le terribili condizioni in cui la guerra veniva combattuta. In alcune regioni di montagna, morirono molti più soldati per il freddo e la fame che per i veri combattimenti con gli austriaci. I generali stessi tendevano a dare la colpa della sconfitta di Caporetto alla scarsa morale e al “disfattismo”. Cadorna incolpò gli “shirkers” e chiamò Caporetto un “colpo militare”. (Caporetto aveva coinciso con la rivoluzione russa del 1917). Cadorna stesso fu sostituito dal generale Armando Diaz in novembre. Tuttavia, l’invasione del territorio italiano aiutò a consolidare lo sforzo bellico sul fronte interno, e migliaia di comitati di sostegno, spesso sostenuti da gruppi della classe media, furono formati per “difendere la nazione”. Alcuni deputati e intellettuali socialisti, come Turati, si unirono allo sforzo bellico quando la minaccia al territorio italiano divenne più chiara. Dopo la guerra, le ferite della sconfitta del 1917 furono riaperte nella lunga inchiesta di Caporetto del 1918-19, che incolpò dell’invasione soprattutto vari alti dirigenti militari.

La guerra fu profondamente impopolare sia tra le truppe – per lo più contadini coscritti che erano denutriti e combattevano per una causa che pochi potevano capire – sia tra la popolazione civile a casa, che includeva quasi un milione di lavoratori nelle fabbriche di armi che erano anche soggetti alla disciplina militare. Molti si ribellarono all’interno dell’esercito. (È stato stimato che circa 470.000 coscritti resistettero alla chiamata, 310.000 commisero atti di indisciplina sotto le armi, e 300.000 disertarono). Più di 1.000.000 di soldati finirono davanti ai tribunali militari prima che fosse concessa un’amnistia postbellica. Molti ancora una volta vedevano lo stato italiano solo come un’istituzione repressiva. Disordini contro la guerra colpirono Milano nel maggio 1917, e gravi rivolte per il pane ebbero luogo tra i lavoratori industriali di Torino nell’agosto 1917. Le truppe occuparono Torino e impiegarono quattro giorni per ristabilire l’ordine; circa 50 dimostranti e 10 soldati furono uccisi negli scontri.

Dopo il novembre 1917 un governo più liberale sotto Vittorio Emanuele Orlando radunò il paese per difendere le sue frontiere. Diaz fece concessioni assistenziali alle truppe e combatté una campagna molto più difensiva fino all’ottobre 1918, quando, nelle fasi finali della guerra, gli italiani ottennero una vittoria finale e decisiva nella battaglia di Vittorio Veneto. In realtà, la vittoria dell’Italia fu tanto il risultato del collasso interno dell’Impero austro-ungarico e della Germania quanto di qualsiasi trasformazione radicale nelle capacità e nelle motivazioni dell’esercito italiano.

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