Akira Kurosawa è senza dubbio il regista giapponese più conosciuto in Occidente. Questo si spiega forse meglio con il fatto che non è tanto un regista giapponese o occidentale, ma che è un regista “moderno”. Come lo stesso Giappone del dopoguerra, combina le antiche tradizioni con un tocco decisamente moderno e occidentale.

Kurosawa ha iniziato a fare cinema dopo una formazione che comprendeva lo studio della pittura, della letteratura e della filosofia politica occidentale. I suoi primi film furono realizzati sotto i severi auspici del governo militarista allora al potere e impegnato nella guerra del Pacifico. Mentre si possono individuare aspetti dell’ideologia pro-guerra nei primi lavori come “The Men Who Tread on the Tiger’s Tail” (1945) o, più in particolare, “Sanshiro Sugata” (1943), questi film sono notevoli più per la sperimentazione stilistica che per l’ispirazione pro-guerra.

Prima di avere la possibilità di maturare in queste condizioni, però, Kurosawa, come tutto il Giappone, ha vissuto l’occupazione americana. Sotto i suoi auspici produsse film pro-democrazia, il più attraente dei quali è “Nessun rimpianto per la nostra gioventù” (1946), curiosamente il suo unico film che ha una donna come protagonista principale. La sua capacità di fare film che potessero piacere ai militaristi giapponesi o agli occupanti americani non dovrebbe essere presa come una schizofrenia culturale o come un recinto politico, perché al loro meglio questi primi film hanno un valore minimo come propaganda, e tendono a rivelare i primi scorci dei grandi temi che avrebbero dominato il suo cinema. Anche il suo stile è un amalgama, un’abile dialettica tra le grandi tradizioni pittoriche del cinema muto, il dinamismo del cinema sovietico (forse incarnato dall’amicizia russo-giapponese drammatizzata in “Dersu Uzala” del 1975) e l’età dell’oro del cinema hollywoodiano (il che spiega la facilità con cui i suoi lavori sono stati rifatti da registi americani).

Soprattutto, Kurosawa è un regista moderno, che ritrae (in film da “Angelo ubriaco” del 1948 a “Rapsodia d’agosto” del 1991) i dilemmi etici e metafisici caratteristici della cultura del dopoguerra, il mondo della bomba atomica, che ha reso assurde certezze e dogmi. La coerenza al centro dell’opera di Kurosawa è la sua esplorazione del concetto di eroismo. Sia che ritragga il mondo dello spadaccino errante, del poliziotto intrepido o del funzionario pubblico, Kurosawa si concentra su uomini di fronte a scelte etiche e morali. La scelta dell’azione suggerisce che gli eroi di Kurosawa condividono lo stesso dilemma dei protagonisti esistenziali di Albert Camus – Kurosawa ha adattato il romanzo esistenziale di Dostoevskij “L’idiota” nel 1951 e ha visto il romanziere come un’influenza chiave in tutta la sua opera – ma per Kurosawa la scelta è di agire moralmente, di lavorare per il miglioramento dei propri simili.

Forse perché Kurosawa ha vissuto le due devastazioni del grande terremoto del Kanto del 1923 e della seconda guerra mondiale, il suo cinema si concentra sui momenti di caos. Dalla distruzione della gloriosa società di corte Heian che circonda il mondo di “Rashomon” (1950) alla distruzione senza fine dell’epoca della guerra civile del XVI secolo che dà a “I sette samurai” (1954) il suo impeto drammatico, alla Tokyo devastata in seguito ai bombardamenti americani in “Angelo ubriaco” (1948), alle devastazioni della moderna mentalità burocratica che pervadono “Ikiru” (1952) e “Il cattivo dormire bene” (1960): I personaggi di Kurosawa sono situati in periodi di eruzione metafisica, minacciati ugualmente dalla distruzione morale e dall’annientamento fisico; in un mondo di alienazione esistenziale in cui Dio è morto e nulla è certo. Ma è il suo eroe che, vivendo in un mondo di caos morale, in un vuoto di norme etiche e comportamentali, sceglie comunque di agire per il bene pubblico.

Kurosawa fu soprannominato “il regista più occidentale del Giappone” dal critico Donald Richie in un’epoca in cui pochi occidentali avevano visto molti dei suoi film e in un momento in cui il regista era in quella che avrebbe dovuto essere solo la metà della sua carriera. Richie riteneva che Kurosawa fosse occidentale nel senso di essere un creatore originale, distinto dal fare il lavoro più rigidamente generico o formulaico di molti registi giapponesi durante l’apice della creatività di Kurosawa. E infatti alcuni dei migliori lavori del regista possono essere letti come “sui generis”, attingendo al genio individuale come pochi registi nella storia del cinema mondiale hanno fatto. “Rashomon”, “Ikiru” e “Record of a Living Being” (1955) sfidano le facili classificazioni e sono stupefacenti nella loro originalità di stile, tema e ambientazione.

Inoltre, le attrazioni di Kurosawa per l’Occidente erano evidenti sia nel contenuto che nella forma. I suoi adattamenti dalla letteratura occidentale, anche se non unici nel cinema giapponese, sono tra i suoi film migliori, con “Il trono di sangue” (1957, da “Macbeth”) e “Ran” (1985, da “Re Lear”) che sono tra le migliori versioni di Shakespeare mai messe su pellicola. E se l’alta cultura occidentale ovviamente lo attraeva, lo stesso valeva per forme più popolari, persino pulp, come dimostrano gli adattamenti acclamati dalla critica di “Red Harvest” di Dashiell Hammett per creare “Yojimbo” (1961) e “King’s Ransom” di Ed McBain per creare il magistrale “High and Low” (1962). Naturalmente tali prestiti mostrano non solo la ricchezza del pensiero di Kurosawa e del suo lavoro, ma anche come le nozioni di “genio” richiedano una complessa comprensione dei contesti in cui l’artista lavora.

Infatti, nonostante tutti gli adattamenti occidentali e l’attrazione per Hollywood e il montaggio in stile sovietico, lo status di Kurosawa come regista giapponese non può mai essere messo in dubbio. Se, come è stato spesso osservato, i suoi film d’epoca hanno delle somiglianze con i western hollywoodiani, essi sono tuttavia accuratamente tratti dal fermento della storia giapponese. Se è stato attratto dal teatro shakespeariano, è stato ugualmente attratto dal mondo rarefatto del dramma giapponese Noh. E se Kurosawa è un maestro del montaggio dinamico, è altrettanto maestro dei marchi giapponesi della ripresa lunga e della macchina da presa graziosamente mobile.

Così vedere Kurosawa come un regista in qualche modo “occidentale” non è solo ignorare le basi tradizionali di gran parte del suo stile e di molti dei suoi temi, ma fare un cattivo servizio alla natura dello stile e della cultura cinematografica attraverso i confini nazionali. Il cinema di Kurosawa può essere preso come paradigmatico della natura del moderno Giappone che cambia, di come le influenze dall’estero sono adattate, trasformate e rese nuove dal genio del carattere nazionale giapponese, che rimane distintivo ma in continuo cambiamento. E se Kurosawa tende a concentrarsi su un eroe individuale, un uomo costretto a scegliere una modalità di comportamento e un modello di azione nella moderna tradizione occidentale dell’eroe solitario, è solo in riconoscimento della cultura globale che sempre più centralizza, burocratizza e disumanizza.

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